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Pagina Tre_ Io, Ibra.

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di Oscar Buonamano

L’autobiografia di Zlatan Ibrahimović è giunta alla sua quarta edizione. Una nuova edizione, ogni anno, a partire dal 2011, data della prima pubblicazione. Un successo editoriale che premia un lavoro sincero che rispecchia ciò che di pubblico si conosce di uno dei più forti calciatori al mondo.
Un libro sincero che conferma l’immagine che ognuno di noi si è fatto di Zlatan  Ibrahimović e che insieme alla biografia sportiva del campione apre la porta di casa Ibrahimović svelando un’intimità che non tutti sarebbero stati capaci di svelare e di raccontare. Un libro che affronta ogni argomento in modo diretto, proprio come il calciatore che in campo da sempre tutto senza risparmiarsi, soprattutto non cerca alibi. Uno che accetta il gioco duro e non si lamenta per questo.
«Pep Guardiola – l’allenatore del Barcellona, quello con i completi grigi e l’aria pensierosa – venne verso di me, e sembrava pensieroso. A quell’epoca pensavo che fosse ok, non esattamente un Mourinho o un Capello, ma un tipo a posto».
L’incipit è l’assaggio di ciò che sarà il libro, un’entrata da cartellino rosso e un giudizio che non lascia spazio a dubbi su Pep Guardiola, il maestro del Tiki Taka. Non si sono amati, non si potevano amare. Troppo diversi i mondi di provenienza e le sensibilità.
«Abitavamo a Rosengård, un sobborgo di Malmö che era pieno di somali, turchi, jugoslavi, polacchi e ogni genere di immigrati, più qualche svedese. Noi ragazzi facevamo tutti i duri, ci infiammavamo per niente, e anche a casa non si può dire che le cose filassero lisce […] Non avevo neanche due anni quando mamma e papà si separarono, non ricordo niente di quella storia e forse è anche meglio così. Non era mai stato un matrimonio felice, questo è certo. Litigavano di continuo e si erano spostai principalmente perché papà potesse ottenere il permesso di soggiorno». Un’infanzia difficile e dura quella di Zlatan, nato e cresciuto in una periferia che più periferia è difficile da immaginare. In un contesto complicato e in una famiglia altrettanto complicata e problematica.
«Ma quello che soffriva di più era papà. Veniva da Bijeljina, in Bosnia. Era stato muratore laggiù, e tutta la sua famiglia e i vecchi amici abitavano ancora in quella città che adesso, all’improvviso, era diventata un inferno […] la guerra lo divorava, e seguirne gli sviluppi divenne per lui un’ossessione. Stava seduto lì da solo e beveva e soffriva, e ascoltava la sua musica e io stavo attento a tenermi fuori casa o me ne andavo dalla mamma».
Questo mondo, il mondo in cui è cresciuto Zlatan è diverso, totalmente diverso, rispetto al mondo in cui è cresciuto l’allenatore del Bayern di Monaco, ex Barcellona. Anche per questa ragione, credo, il loro rapporto non sia mai decollato.

Le problematicità dell’ambiente famigliare hanno condizionato, e molto, anche l’inizio della carriera sportiva di Zlatan. Pur essendo un giovane calciatore molto promettente e forte tecnicamente, il giovane talento svedese ha dovuto superare non poche difficoltà per affermarsi in un mondo che non sempre premia i migliori.
«Nel Malmö si faceva sul serio […]  Avevo tredici anni e c’erano già un paio di altri stranieri, fra cui il mio vecchio amico Tony Flygare. Per il resto c’erano solo svedesi doc, tipo quartieri alti del genere Limhamm. Io mi sentivo un marziano».
Ma più difficili erano le condizioni al contorno più forte diventava la determinazione di Zlatan. Che gradino dopo gradino comincia a salire la scala che lo porterà in cima al calcio mondiale.
«Il tizio in questione non era affatto un mafioso. Semplicemente, gli piaceva seguire quello stile. Si chiamava Mino Raiola, e si dà il caso che avessi già sentito parlare di lui. Era l’agente di Maxwell e, proprio, attraverso di lui, Mino stesso aveva cercato di mettersi in contatto con me qualche mese prima […] Ma con me non gli era andata granché bene […] mi aveva solo fatto sapere: “ Di’ a questo Zlatan di andare a fare in culo”».
Dopo l’esperienza al Malmö è la volta dell’Ajax, fucina da sempre di grandi campioni, fino a quando non incontra sulla sua strada l’uomo che trasformerà Zlatan in Ibrahimović. Quell’uomo è Mino Raiola, appunto. Una persona a cui il campione svedese deve molto sia in termini economici sia in termini di crescita professionale. Raiola è scaltro. Ha un fiuto particolare per i giovani campioni e sa come capitalizzare al massimo il materiale umano e sportivo che si trova tra le mani.
Sarà proprio Mino Raiola a portarlo prima alla Juventus e poi all’Inter dove con un ingaggio di 12 milioni all’anno è stato il calciatore più pagato al mondo.
«Quando ero arrivato, l’Inter non vinceva il campionato da diciassette anni: con me avevamo vinto tre anni di seguito, e io avevo anche portato a casa il titolo di capocannoniere. Era pazzesco. Guardai verso Mourinho, che finalmente mi accorsi che era furibondo e dispiaciuto al tempo stesso. Non voleva perdermi. In quella partita amichevole mi lasciò in panchina e anche io sentii che, per quanto fossi felice di andare al Barça, mi dispiaceva lasciare Mourinho. È speciale, quell’uomo».
Dopo l’Inter è stata la volta del Barcellona e, in seguito al rapporto non buono con l’allenatore degli azulgrana, poi ancora del Milan e del Paris Saint Germain, squadra nella quele milita tuttora.
Ibrahimović calciatore ha vinto molto. Sia a livello individuale sia a livello di squadra. Un calciatore decisivo che ha sempre vinto in tutte le squadre in cui ha giocato. Vittorie costruite nel tempo e ottenute senza mediazioni, in cui il suo contributo alla causa è stato spesso determinate. Tutto questo emerge in maniera chiara in questa sua bella autobiografia scritta con David Lagercrantz.
Ma ciò che più mi ha colpito di questo suo lavoro, al di fuori del campo di gioco, è aver avuto la possibilità di conoscere dall’interno la persona umana. La storia di una ragazzo che aveva dei sogni e che è riuscito a realizzarli nonostante le condizioni di partenza non fossero le migliori. In questo senso il suo libro è un libro utile. Che può servire ai tanti che non nascono e crescono in condizioni di privilegio, ma che devono lottare tutti i giorni per sopravvivere e costruirsi un futuro. In questo senso l’insegnamento di Zlatan, il duro, può essere utile. Lui ce l’ha fatta, è riuscito a riscattare un’infanzia e un’adolescenza difficili riuscendo a realizzare i suoi sogni. Un libro dunque positivo che attraverso un esempio è capace d’indicare una strada e una direzione.
«Non molto tempo fa mi fu inviata una fotografia, un’immagine del ponte di Annelund, che si trova ai confini di Rosengård. Su quel ponte qualcuno aveva attaccato uno striscione. “puoi togliere il ragazzo da Rosengård. Ma mai Rosengård dal ragazzo” c’era scritto, ed era firmato Zlatan […] Era il quartiere della mia infanzia. Erano le strade dove tutto era iniziato, e mi sentivo, come dire? grande e piccolo al tempo stesso! […] Intorno a me cominciava a radunarsi una piccola folla. Era una fiaba e io ero Zlatan Ibrahimović».
Una direzione che pur essendo diversa da quella iniziale ci ricorda che le proprie origini, la propria storia, restano per sempre dentro di noi, come monito o come esortazione.

Io, Ibra. Zlatan Ibrahimović con David Lagercrantz (BUR, Quarta edizione 2015. 390 pagine. 9,90 euro)


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